Pochi giorni fa un servizio della celebre trasmissione televisiva Report è tornato per un attimo a puntare i riflettori dell’attenzione pubblica sulla gestione del post-sisma all’Aquila, denunciando in particolare lo stato di degrado in cui versano alcuni alloggi del progetto C.A.S.E. (acronimo di Complessi Antisismici, Sostenibili ed Ecocompatibili).
Il progetto è il principale intervento realizzato dal governo nazionale (allora presieduto da Silvio Berlusconi) per dare alloggio temporaneo alla popolazione sfollata a seguito del sisma che, nel 2009, colpì il capoluogo abruzzese – provocando 309 morti e decine di migliaia di sfollati, e riducendo in macerie ampie porzioni della città e di alcuni comuni limitrofi. Stiamo parlando di quasi 4500 alloggi, destinati a ospitare circa 17.000 persone, costituiti da palazzine residenziali realizzate su enormi piastre antisismiche in cemento armato. Le palazzine del progetto C.A.S.E. sono raggruppate in piccoli “quartieri dormitorio” (i servizi pubblici sono pochi, gli esercizi commerciali assenti) localizzati in varie aree, per lo più periferiche, della città. Questi quartieri sono conosciuti giornalisticamente come le “new towns” di Berlusconi: fu infatti il Cavaliere a spingere fortemente per la loro realizzazione. Al suono dello slogan “dalle tende alle case”, l’allora presidente del Consiglio fece un enorme investimento politico e di immagine sulla costruzione di queste strutture. I primi appartamenti furono inaugurati a soli cinque mesi dal sisma, con un Berlusconi raggiante che poteva dichiarare di aver vinto la sfida di sistemare velocemente un numero elevato di sfollati all’interno di strutture in tutto e per tutto simili a tradizionali abitazioni. Dalle tende dell’emergenza alle case del progetto C.A.S.E., per l’appunto.
Il costo di tale apparente successo è però stato abilmente scaricato sulla collettività, senza che quest’ultima quasi se ne accorgesse. Ciò non riguarda tanto la spesa astronomica (superiore agli 800 milioni di euro) per la costruzione degli alloggi del progetto C.A.S.E., quanto la salatissima ipoteca che hanno imposto al territorio aquilano, legata alla loro nefasta natura in bilico tra temporaneo e permanente. Il progetto è stato infatti realizzato per dare rapidamente un alloggio temporaneo alla popolazione sfollata e, per questo, è stato costruito con materiali inadatti a durare a lungo. Ciò è stato plasticamente testimoniato, nel 2014, dal crollo di un balcone in una delle “new towns”, successivamente interamente evacuata. Simultaneamente, il progetto C.A.S.E. è stato realizzato nell’idea, inizialmente non troppo sbandierata, che le strutture edificate in verità non sarebbero mai state rimosse. Si trova traccia di questa intenzione già in alcuni documenti ufficiale di 2011 (tra cui il Piano di Ricostruzione, che avanzava l’ipotesi, invero alquanto strampalata, che quegli appartamenti “temporanei” avrebbero potuto ospitare studenti e turisti alla fine della ricostruzione).
Oggi, con la ricostruzione della città che non è lontana dall’essere completata, questi alloggi sono entrati in una traiettoria di sotto-utilizzo e degrado. Su 4450 abitazioni, solo circa 2850 sono oggi occupate, in parte dagli sfollati del sisma, in parte da altri soggetti fragili (popolazione a basso reddito, famiglie monoparentali e anziani, a cui si sono aggiunte recentemente alcune decine di profughi ucraini). Dei rimanenti alloggi, solo 300 sono effettivamente disponibili, mentre risultano inagibili 870 appartamenti (quelli in corso di manutenzione sono 420). Con il passare del tempo, la quota di abitazioni inoccupate crescerà, così come, probabilmente, quella degli alloggi inagibili (e i costi di manutenzione). Che fare, dunque, del progetto C.A.S.E.?
Il servizio di Report menzionato all’inizio di questo post ha scatenato all’Aquila un rimpallo di responsabilità tra la presente amministrazione (di centro-destra) e la precedente (di centro-sinistra), che ha dimostrato solo, in maniera inequivocabile, come nessuno, indipendentemente dal colore politico, abbia un piano unitario, a lungo termine, per queste strutture. Quello che si sta facendo è procedere a tentoni, per frammenti. In campo ci sono alcuni interessanti progetti di riutilizzo di alcune porzioni del progetto C.A.S.E., legati all’istituzione all’Aquila del Centro Nazionale del Servizio Civile Universale e alla Scuola Nazionale dei Vigili del Fuoco.
Ma la verità è che c’è un limite ai progetti di riutilizzo che si possono inventare, motivo per cui si dovrà prima o poi ammettere che c’è un elefante nella stanza: l’unica strada percorribile per un elevato numero di queste strutture è la demolizione. E ciò nonostante l’enorme massa di denaro pubblico spesa per realizzarle poco più di un decennio fa. Si deve infatti prendere atto che il loro mantenimento non rappresenta un’opportunità (semplicemente, la città non ha bisogno di tutti quegli spazi, tanto più che c’è un problema rilevante di vuoti anche all’interno del tessuto urbano consolidato), ma un fardello, i cui costi di manutenzione non faranno che aumentare, di pari passo con l’avanzare del loro degrado e il crescere del loro inutilizzo. L’abbattimento è però più facile a dirsi che a farsi, se non altro per una questione economica: si parla di un’operazione dai costi elevatissimi (svariate decine di milioni di euro), che l’amministrazione comunale non è sicuramente in grado di affrontare. Demolire deve diventare così il tassello finale dell’azione del governo centrale rispetto al sisma dell’Aquila: simbolicamente e praticamente la ricostruzione deve terminare con una distruzione, quella del progetto C.A.S.E.
(Hanno contribuito alla scrittura di questo testo Teresa Animali e Sara Giannoni)