A L’Aquila restano abitazioni di emergenza da demolire e monumenti all’abusivismo

Il nostro paese è costellato di illegalità in ambito urbano che amministratori, burocrati e imprenditori usano a proprio vantaggio. Il caso Abruzzo è emblematico: il problema oggi non è più tanto la ricostruzione, ma come disfarsi degli alloggi d’emergenza e delle “casette” abusive. La politica non risponde

Ho lavorato e vissuto a L’Aquila per sette anni, tra il 2013 e il 2020, poi mi sono spostato in un’altra città. Ancora oggi, però, incontro qualcuno che mi chiede come stia procedendo la ricostruzione del capoluogo abruzzese. Quando rispondo che la gran parte della ricostruzione è già terminata da tempo, l’interlocutore di turno difficilmente nasconde la propria sorpresa, aspettandosi  una risposta ben diversa.

A L’Aquila non è come sembra

Sono convinto che la mia esperienza personale non si discosti di molto dalla percezione – piuttosto diffusa in Italia – che la ricostruzione de L’Aquila sia ancora in alto mare, impantanata in mancanze di fondi e lungaggini burocratiche. La realtà è ben diversa. Intendiamoci: problemi e difficoltà non sono mancati – e pure qualche caso di malversazione, spreco e inefficienza che però non ha inciso in maniera significativa sulla traiettoria della ricostruzione. Se confrontato con altri processi di ricostruzione post-sismica in Italia, quello abruzzese può essere giudicato come un caso di successo. Nonostante le difficoltà evidenti del contesto di intervento (per esempio, un tessuto urbano punteggiato da svariati edifici storici), grazie anche a uno sforzo finanziario enorme (in complesso la gestione del post-sisma aquilano dovrebbe costare, una volta conclusa, circa 25 miliardi di euro pubblici), la ricostruzione ha proceduto speditamente e oggi è quasi giunta al termine. Ciò riguarda soprattutto le abitazioni private, che sono state praticamente tutte ricostruite, con l’eccezione di casi particolarmente complessi (per esempio, per questioni di vincoli architettonici o per particolari problemi legati alla proprietà). La ricostruzione di edifici e strutture pubbliche, invece, ha proceduto un po’ più lentamente (per esempio, per la maggior complessità amministrativa degli appalti), ma, anche in questo caso, la maggior parte degli interventi è stata conclusa e una buona parte di quelli rimanenti è in fase di attuazione.

 

Il vero problema è l’edilizia dell’emergenza: C.A.S.E. e “casette”. Che cosa farne?

Tutto bene quel che finisce bene? No, purtroppo no. La fine della ricostruzione non significherà per il capoluogo abruzzese la fine dei problemi legati al terremoto. Ciò non riguarda solo il fatto che il sisma – con il proprio lascito di 309 morti, più di 1.600 feriti, decine di migliaia di sfollati, la riduzione in macerie di ampie porzioni della città – ha inferto una ferita profonda nella popolazione e nel tessuto sociale, che ci vorranno decenni per sanare completamente. Riguarda anche, in maniera molto più prosaica, il fatto che la città si trova ora ad affrontare un problema diverso rispetto a quello degli anni passati, ma ugualmente gravoso. Non si tratta più di ridare la casa a chi l’aveva persa, ma, al contrario, di capire che cosa fare di tutto quell’immenso patrimonio edilizio costruito per ospitare temporaneamente la popolazione sfollata (la cosiddetta “edilizia dell’emergenza”). 

Quando si menzionano gli interventi realizzati all’indomani del sisma dell’aprile 2009 per alloggiare gli sfollati, si pensa immediatamente al progetto C.A.S.E. (acronimo di Complessi Antisismici, Sostenibili ed Ecocompatibili), più noto al grande pubblico con l’appellativo di “new town di Berlusconi”. Fu infatti il Cavaliere a spingere fortemente per la sua realizzazione: al motto di “dalle tende alle case”, l’allora presidente del Consiglio fece un enorme investimento politico e di immagine proprio sul progetto C.A.S.E. I primi appartamenti furono inaugurati a soli cinque mesi dal sisma, con un Berlusconi raggiante che poteva dichiarare di aver vinto la sfida di sistemare velocemente un numero elevato di aquilani in  strutture in tutto e per tutto simili a tradizionali abitazioni. Dalle tende dei giorni immediatamente successivi al terremoto alle case in muratura, senza passare per anni di ignobile permanenza in pietosi container, come avvenuto in passato. 

Ma che cos’è esattamente il progetto C.A.S.E.? Stiamo parlando di quasi 4500 alloggi, destinati a ospitare circa 17.000 persone, costituiti da palazzine residenziali realizzate su enormi piastre antisismiche in cemento armato. Le palazzine del progetto C.A.S.E. sono raggruppate in piccoli “quartieri dormitorio” (i servizi pubblici sono pochi, gli esercizi commerciali assenti) localizzati in diciannove aree, per lo più periferiche, della città. Il progetto C.A.S.E. è stato da subito al centro di un feroce dibattito pubblico, legato a diverse criticità, tra cui la spesa astronomica per la loro costruzione (superiore agli 800 milioni di euro), l’utilizzo di materiali spesso di bassa qualità e inadatti a durare a lungo (come plasticamente testimoniato, nel 2014, dal crollo di un balcone in una delle new town), la loro localizzazione periferica.

Ma il vero, enorme, problema del progetto C.A.S.E. è emerso solo successivamente: che cosa fare di questi manufatti una volta finita l’emergenza? Le new town sono state costruite senza alcuna progettualità chiara a riguardo: ci si è accontentati di dire che si sarebbero potute in parte riutilizzare una volta terminata la fase emergenziale (si trova traccia di ciò, per esempio, in alcuni documenti ufficiali del 2011, che avanzavano l’ipotesi, invero alquanto strampalata, che quegli appartamenti avrebbero potuto in futuro ospitare studenti e turisti). Oggi, con la ricostruzione degli alloggi privati quasi completata, questi appartamenti sono in uno stato di sotto-utilizzo e degrado. Su 4500 abitazioni, più di mille sono inagibili o in corso di manutenzione. Le altre sono occupate in parte dagli ultimi sfollati dal sisma (poco più di un migliaio di abitazioni), in parte da altri soggetti fragili (popolazione a basso reddito, famiglie monoparentali, anziani, profughi ucraini).

Il progetto C.A.S.E., per quanto sia stato sulla cresta dell’onda dell’attenzione mediatica per diverso tempo, non è stato il solo intervento di natura edilizia della fase dell’emergenza. Esso è stato accompagnato dalla realizzazione dei cosiddetti M.A.P. (acronimo per Moduli Abitativi Provvisori), ossia case prefabbricate (circa 1300 in totale) agglomerate in piccoli quartieri e ubicate nelle aree più periferiche dell’estesissimo territorio aquilano. Anch’essi, come le strutture del progetto C.A.S.E., sono oggi in uno stato di sotto-utilizzo o parziale abbandono. Nonostante ciò presentano, rispetto a questi ultimi, un indubbio vantaggio: la loro temporaneità non è mai stata messa in discussione e la loro stessa materialità ne rende piuttosto agevole lo smantellamento. La stessa cosa non si può invece dire delle new town, la cui rimozione (tanto delle palazzine residenziali, quanto delle enormi piastre antisismiche in cemento armato su cui poggiano) è molto più complessa e assai più costosa.

È su questo sfondo che, da qualche anno, la politica locale discute e battibecca – in un rimpallo di responsabilità tra la presente amministrazione (di centro-destra) e la precedente (di centro-sinistra) – per trovare una soluzione praticabile per questa edilizia dell’emergenza. La verità è che nessuno, indipendentemente dal colore politico, ha un piano unitario, a lungo termine e convincente per queste strutture. Quello che si sta facendo è procedere a tentoni, per frammenti, cercando di intercettare opportunità per un parziale riutilizzo di alcune porzioni del progetto C.A.S.E. – per esempio, legate all’istituzione all’Aquila del Centro Nazionale del Servizio Civile Universale e della Scuola Nazionale dei Vigili del Fuoco.

Su questo sfondo, sono convinto che l’unica strada percorribile per un elevato numero di strutture è la demolizione. E ciò nonostante l’enorme massa di denaro pubblico spesa per realizzarle poco più di un decennio fa. Si deve infatti prendere atto che il loro mantenimento non rappresenta un’opportunità (semplicemente, la città non ha bisogno di tutti quegli spazi, tanto più che c’è un problema rilevante di vuoti anche all’interno del tessuto urbano consolidato), ma un fardello, i cui costi di manutenzione non faranno che aumentare, di pari passo con l’avanzare del loro degrado e il crescere del loro inutilizzo. L’abbattimento è, però, più facile a dirsi che a farsi, se non altro per una questione economica: si parla di un’operazione dai costi elevatissimi (svariate decine di milioni di euro), che l’amministrazione comunale non è in grado di affrontare. Demolire deve diventare il tassello finale dell’azione del governo centrale rispetto al sisma de L’Aquila: simbolicamente e praticamente la ricostruzione deve terminare con una distruzione, quella di C.A.S.E. e M.A.P. Dopo anni di tentennamenti in questo senso, è di pochissimo tempo fa la notizia che, finalmente, si sta procedendo alla demolizione di alcuni M.A.P. inagibili, oltre che di circa 20 delle 185 piastre che compongono il progetto C.A.S.E. Poco, ma meglio di nulla.

C’è da precisare, però, che i problemi de L’Aquila alle prese con l’eredità del post-sisma non finirebbero nemmeno con la demolizione di M.A.P. e new town. Un ultimo tassello completa questo quadro tormentato: quello, quasi sconosciuto al di fuori de L’Aquila, delle cosiddette “casette”. Di cosa si tratta esattamente? Per capirlo dobbiamo tornare al 2009. A solo un mese dal sisma, il Consiglio Comunale de L’Aquila approva la delibera 58/2009, asetticamente intitolata «Criteri per la localizzazione e la realizzazione di manufatti temporanei».  Il provvedimento ha l’obiettivo di «soddisfare le esigenze abitative temporanee dei cittadini … definendo criteri e procedure per localizzazione, realizzazione e successiva rimozione di manufatti temporanei». In pratica, si autorizza la costruzione di case temporanee da parte degli sfollati. In base alla delibera, questi manufatti – che, in città, vengono colloquialmente chiamati “casette” – possono essere edificati praticamente ovunque, senza alcun rispetto delle norme di uso del suolo contenute nel piano regolatore e persino in violazione dei regolamenti ambientali e paesaggistici. Tra i pochi requisiti che è necessario rispettare, vi sono quello di una superficie massima di 95 metri quadrati e, soprattutto, quello dello smantellamento al termine della fase dell’emergenza.

Il provvedimento, a prima vista, è ragionevole: sono passate poche settimane dal terremoto; gli sfollati sono decine di migliaia; i tempi e i modi della ricostruzione sono incerti e nessuno (legittimamente, visto le esperienze passate) ha molta fiducia nelle promesse del governo. Perché, dunque, non permettere a chi ne ha la possibilità e la forza di realizzarsi autonomamente un’abitazione temporanea, diminuendo così il numero di coloro ai quali deve provvedere lo Stato?

La Delibera 58 dovrebbe rimanere in vigore per tre anni, ma viene abrogata dopo meno di due. Diviene rapidamente chiaro che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Nell’immaginazione degli estensori del provvedimento sarebbero dovuti sorgere qui e là alcuni manufatti in legno, facilmente smantellabili non appena le abitazioni originarie dei loro proprietari fossero state riparate. Ma a L’Aquila succede qualcosa di diverso. Come ho spiegato nella parte finale di un recente libro in cui analizzo diversi fenomeni illegali in ambito urbano (Cemento armato. La politica dell’illegalità nella città italiane; Bollati Boringhieri 2023), oltre a casette leggere e smontabili, se ne cominciano a costruire molte altre che di temporaneo non hanno proprio nulla. Vere e proprie case unifamiliari, in muratura, ben più ampie dei 95 metri quadrati previsti dalla direttiva del Comune, spuntano come funghi, in un contesto in cui i controlli da parte delle autorità pubbliche sono praticamente assenti.

Di casette ne vengono autorizzate circa mille. Non è chiaro quante siano quelle che rispettano i requisiti della delibera. Quest’ultimo aspetto, oggi, perde rilevanza, visto che, attualmente, sono tutte tecnicamente illegali. Difatti, anche se la fase dell’emergenza è finita da tempo e quasi tutta la popolazione sfollata è rientrata nelle proprie abitazioni, nessuna di esse è stata rimossa. Insomma, le “casette temporanee” sono divenute “casette abusive”. Come se non bastasse, nonostante la procedura per l’autorizzazione della costruzione di una casetta sia estremamente semplice, ne vengono costruite alcune migliaia (secondo stime ufficiose, più di tremila) senza la presentazione dei pochi documenti necessari. Anche di queste, quasi nessuna è stata smantellata.

In sostanza, quella oscura delibera comunale apre le porte a una grandinata di edificazione illegale che colpisce ogni angolo del territorio aquilano, incluse zone di pregio ambientale, aree a rischio idrogeologico, pendici boschive e superfici agricole.

Così, se quello di M.A.P. e progetto C.A.S.E. è essenzialmente un problema di progettualità (decidere cosa farne e trovare le risorse necessarie per farlo), nel caso delle “casette” il problema assume una caratterizzazione ben più spinosa e conflittuale.

L’indolenza della politica sancisce l’immortalità delle “casette”

La classe politica locale è attentissima a tenersi alla larga dalla scocciatura di decidere il futuro di quelle migliaia di manufatti tecnicamente abusivi. Il ceto dei proprietari di casette – che, in una città di meno di 70.000 abitanti, rappresenta una quota non irrilevante dell’elettorato – preme per la regolarizzazione: molte casette sono state costruite con l’intenzione, da parte dei proprietari, di non demolirle mai, in modo che possano fungere da “rifugio sicuro” in caso di futuri eventi catastrofici – e anche a fronte del fatto che la loro edificazione è stata assai onerosa (si è aggirata mediamente attorno ai 100/150.000 euro a casetta). L’ipotesi della regolarizzazione, oltre a essere tecnicamente complessa e comunque percorribile solo per una parte dei manufatti edificati, è però accanitamente contestata da moltissimi aquilani che non vogliono proprio sentir parlare di regolarizzare quelle abitazioni abusive. 

L’esito di questa situazione è tipicamente italiano: la classe politica tergiversa, attende, evita di affrontare la questione, prendendo tempo affinché le lancette dell’orologio della vita dell’amministrazione comunale compiano il proprio giro e il problema passi alla successiva compagine di governo locale. C’è da scommettere che, quando il sisma sarà un lontano ricordo offuscato dai decenni e M.A.P. e C.A.S.E. saranno state (sperabilmente) demolite da tempo, le casette, ormai diroccate, inutilizzate e assediate dalle sterpaglie, saranno ancora lì: imperituri monumenti alla memoria dell’ignavia della politica locale ai tempi del sisma nell’Italia dell’abusivismo e dell’illegalità urbana.

(Pubblicato su La via libera, 7 aprile 2024)

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