Città vendicative

Con il DdL Piantedosi la città italiane si accaniranno non solo contro i soggetti marginali, ma anche contro gli attori della protesta urbana

“L’aria della città rende liberi dopo un anno e un giorno”: recita così un antico proverbio, che sembra affondi le radici nella pratica medioevale di cancellare il vincolo di servitù a qualsiasi servo che, fuggito dal padrone, avesse vissuto per più di un anno in città. E, in effetti, le città sono da sempre l’emblema della libertà e della diversità. Tuttavia, molte di esse, da qualche tempo, sono caratterizzate anche da una spinta opposta, ossia da una sorta di attitudine alla vendetta, alla rivalsa contro specifici soggetti e pratiche considerate indesiderate, fuori posto, perturbanti.

Di città vendicative o, meglio, revansciste, si parla già da almeno tre decenni. Il termine revanscismo indica uno spirito di rivalsa nei confronti di trasformazioni politiche, sociali e territoriali viste come ingiuste da parte di gruppi reazionari, nazionalisti o conservatori. Negli anni il concetto di revanscismo urbano è stato mobilitato in relazione soprattutto a città che hanno promosso politiche muscolari di tolleranza zero, come la New York di Rudolph Giuliani negli anni Novanta che si è caratterizzata per la dura repressione di reati minori (per esempio, consumo di alcolici in pubblico e accattonaggio) e dei soggetti marginali che ne erano gli attori principali (come le persone senzatetto).

Questo tipo di “vendetta” rappresenta solo il lato più evidente della medaglia. La metafora delle città vendicative oggi appare appropriata a leggere anche una serie di processi che, seppur diversi per matrice, scala e attori, hanno in comune il fatto di accanirsi su soggetti deboli che nei decenni passati erano riusciti a ritagliarsi uno spazio in aree urbane appetibili. È il caso, solo per citare un esempio, di quei progetti di trasformazione urbana che generano l’espulsione dai centri città di famiglie e individui a basso reddito, che non sono più in grado di permettersi di abitare in un quartiere “rinnovato” o “gentrificato”. Ma si pensi anche alla pletora di ordinanze municipali finalizzate a tutelare il decoro urbano delle aree centrali impedendo di sedersi per terra o bivaccare nello spazio pubblico.

È sullo sfondo di queste città rancorose nei confronti di soggetti connotati socialmente ed etnicamente (le persone povere, migranti, senzatetto) che si innesca oggi un elemento di “novità”: la torsione repressiva e vendicativa non riguarda più soltanto i “soggetti marginali” colpevoli di turbare il decoro urbano o di impedire la valorizzazione immobiliare di un’area, ma anche di chi è reo di esprimere il dissenso nei confronti di queste pratiche (e di altri processi correlati).

È quello che avviene – o meglio, che rischia di avvenire – con il disegno di legge 1660 (il cosiddetto “pacchetto sicurezza” del ministro Piantedosi), da poco approvato alla Camera. Che questo sia un provvedimento connotato da un afflato vendicativo è evidente quando si considerano le proposte relative alle carceri, rispetto alle quali viene introdotto un nuovo, incredibile reato: il delitto di rivolta, nell’ambito del quale anche la resistenza passiva viene criminalizzata (provvedimenti simili riguardano anche i CPR, Centri di permanenza e rimpatrio dei migranti). Un poco meno evidente è il fatto che esso colpisce in maniera intenzionale anche i soggetti protagonisti, negli ultimi anni, delle principali mobilitazioni sociali, soprattutto in ambito urbano.  È questo il caso di attivisti e attiviste per il clima, per il diritto alla casa e contro le grandi opere. Per esempio, il DdL 1660 trasforma il blocco stradale in un reato penale, punibile con la reclusione fino a due anni, e inasprisce le sanzioni contro l’imbrattamento o il deturpamento di beni altrui (atti puniti anch’essi con il carcere), con l’obiettivo esplicito di mettere a tacere gruppi come Extinction Rebellion. Inoltre, intensifica le pene per reati finalizzati a impedire la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture strategiche (dalla TAV al Ponte sullo Stretto di Messina). Infine, si accanisce per l’ennesima volta contro le occupazioni abusive: non solo quando un’occupazione riguarda un immobile “destinato ad abitazione altrui” si rischiano fino a sette anni di carcere, ma una pena è prevista anche per chi coopera con tale atto. In altre parole, gli attivisti di un movimento per il diritto alla casa che praticano forme di resistenza passiva per impedire lo sfratto di una famiglia da un alloggio che non ha più titolo di occupare (per esempio, perché non può più pagare il canone d’affitto) sono anch’essi punibili con il carcere.

È bene sottolineate che la torsione securitaria e vendicativa del DdL Piantedosi è solo l’apice di un percorso di iniziato diverso tempo fa e avallato da governi di diverso colore politico: basti ricordare il decreto Renzi-Lupi del 2014 che ha fatto da apripista ai giri di vite contro le occupazioni abitative o al DASPO urbano inventato dal Marco Minniti, ministro dell’interno nel governo Gentiloni. La differenza è che, se in passato a essere colpite erano soprattutto la “frange estreme” della protesta urbana, ai tempi del governo di destra di Giorgia Meloni il novero di chi è indesiderato perché politicamente perturbante si amplia per includere anche soggetti non certo iper-radicali o iper-conflittuali – e, soprattutto, in nessun modo pericolosi per l’ordine pubblico – come gli attivisti per il clima.

Viene solo da chiedersi chi sarà il prossimo soggetto sulla lista della vendetta urbana.

[Pubblicato su Huffington Post Italia, 07.10.2024]

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