La discussione che si è animata circa il divieto di celebrare messe nella cosiddetta “Fase 2” è paradigmatica di alcune caratteristiche dell’azione del governo in questo frangente. Nello specifico, evidenzia in modo lampante come essa rischi sempre più di essere caratterizzata da una profonda incoerenza connessa a questioni di mero consenso elettorale – che esplicita una precisa (e assai discutibile) scala di priorità di matrice politica, la cui esistenza tuttavia ci si ostina a negare. Provo a spiegare questa tesi proponendo un paragone, a prima vista azzardato, tra messe e lezioni universitarie.
Il punto di partenza è, come noto, il fatto che la Fase 2, per come annunciata, non prevede la possibilità di celebrare le messe. Diversi esponenti politici (per esempio, Teresa Bellanova) e diverse organizzazioni (in primis, la CEI) hanno tuttavia duramente criticato questa scelta, motivo per il quale il governo sta pensando a dei correttivi.
Ci si potrebbe chiedere: ma perché si dovrebbe permettere la celebrazione delle messe e non la ripresa, per esempio, delle lezioni universitarie? (Sia ben chiaro: non sto sostenendo che si debba far ripartire subito sia le messe sia le lezioni universitarie; mi pongo questa domanda per ragionare su una questione più generale, senza argomentare in favore di una certa risposta a tale quesito). Messe e lezioni universitarie, infatti, sono attività piuttosto simili: in entrambi i casi vi è una persona (un prete o un docente universitario) che, in uno spazio chiuso, parla ex cathedra a un pubblico che non interagisce fisicamente con lui (ma, al limite, verbalmente, e sempre da una certa distanza). Se proprio dovessimo trovare una differenza tra le due attività, questa non sembrerebbe deporre in favore delle funzioni religiose: le persone che abitualmente frequentano le messe sono in media piuttosto anziane e, come tali, sono ben più a rischio degli studenti universitari. A fronte di ciò, perché si parla solo di tornare a celebrare le messe, ma non le lezioni universitarie?
Sono tre le possibili giustificazioni per questa incongruenza.
- I fedeli sono più responsabili degli studenti universitari (forse si immagina che questi ultimi, liberi dall’isolamento, usino la scusa delle lezioni per darsi a baccanali dissoluti – senza alcun tipo di protezione, naturalmente).
- Le messe svolgono una funzione sociale più importante delle lezioni universitarie. O, per lo meno, le messe non possono essere sostituite in alcuna misura accettabile con funzioni “virtuali” (per quanto la messa domenicale in TV ce l’abbiamo da decenni…), cosa che però non vale per le lezioni universitarie (nonostante si potrebbe argomentare che è vero il contrario).
- Gli spazi in cui si svolge una messa permettono un adeguato distanziamento fisico, cosa che non può avvenire con le lezioni universitarie.
Se le prime due giustificazioni sono chiaramente implausibili, lo è invero anche la terza. E’ vero che le chiese sono spesso (ma non sempre) costituite da spazi molto ampi e frequentati da pochi fedeli, fatto che permette un adeguato distanziamento fisico. Tuttavia, ciò vale anche nel caso di diverse lezioni universitarie. In molto corsi di laurea i partecipanti alle lezioni sono spesso poche decine. E molte università sono dotate di molte aule abbastanza ampie da garantire un opportuno distanziamento in caso di partecipazione di un numero ridotto di studenti.
Perché dunque si ragiona solo della necessità di far ripartire subito le messe e non alcuni corsi di laurea? La giustificazione si deve ricercare nel diverso peso politico ed elettorale riconducibile ai due campi in questione. Nel caso del mondo cattolico tale peso è enorme. Il mondo della formazione (dell’università, ma anche della scuola) non è in grado di esercitare uguale peso politico – o per lo meno, non è in grado di farlo in modo tanto esplicito e diretto, di modo che nessuno, al governo, prende attualmente in considerazione l’opportunità di un supplemento di riflessione sulla decisione di proseguire la chiusura di tutte le scuole e le università, ovunque nel paese, senza prevedere alcun serio intervento pubblico di supporto alle famiglie.
Che l’azione politica ordinaria sia influenzata profondamente da considerazioni di matrice meramente elettorale e da pressioni di rilevanti attori sociali è scontato. Tuttavia, non siamo in una fase politica ordinaria. In questo periodo, la maggior parte delle scelte pubbliche viene giustificata alla luce di argomentazioni di carattere tecnico-scientifico; di conseguenza, il governo beneficia di un’aurea super-partes che pretende una sorta di unità d’intenti e di stigmatizzazione d’ufficio della polemica e della critica. Ma ciò può avvenire solo a condizione che le decisioni pubbliche siano caratterizzate da estrema coerenza e sostenute da giustificazioni chiare, veritiere e convincenti, cosa che sta avvenendo sempre meno. Con il rischio che questa Fase 2 si trasformi in una forma deleteria di pseudo-tecnocrazia, preoccupata di costruire consenso elettorale senza curarsi della qualità della nostra democrazia.