Nelle ultime settimane, la cosiddetta “ordinanza anti-mendicanti” del sindaco di Como (ossia il provvedimento che ha vietato di chiedere l’elemosina in alcune aree del centro storico) ha suscitato molto dibattito e attirato numerose critiche.
La decisione del sindaco di Como è stata particolarmente infelice, soprattutto per il fatto che è stata presa a ridosso delle festività natalizie (più precisamente, è stata giustificata esattamente in virtù dell’arrivo delle festività natalizia e del conseguente aumento del turismo e dello shopping in città).
Per correttezza, bisogna tuttavia dire che il caso di Como non è certamente il primo: simili ordinanze hanno letteralmente proliferato negli ultimi anni, utilizzate tanto da sindaci di destra e centro-destra, quanto da sindaci di centro-sinistra. Ciò è avvenuto anche grazie alle possibilità offerte da provvedimenti di carattere nazionale (per esempio, il cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” proposto dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni, o il più recente “Decreto Sicurezza” del ministro Marco Minniti), che hanno ampliato le possibilità di utilizzo di uno strumento, l’ordinanza del sindaco, precedentemente limitato a un uso molto specifico (ossia per prendere decisioni rapide in situazioni di particolare gravità e urgenza, come nel caso di calamità naturali).
Negli ultimi anni centinaia di sindaci in Italia hanno usato lo strumento dell’ordinanza, per regolare questioni di tutti i tipi. Alcune di queste ordinanze hanno attirato l’attenzione pubblica per il proprio bizzarro contenuto: è questo, per esempio, il caso di Capri, dove nel 2011 il sindaco ha emanato un’ordinanza per istituire il test del DNA sulle deiezioni canine abbandonate per strada, in modo da cercare di individuare i colpevoli. Altre ordinanze, invece, sono state giustificate alla luce di problemi ben più rilevanti (per esempio, questioni di sicurezza), ma, in molti casi, sono state usate, direttamente o indirettamente, per colpire specifiche “minoranze indesiderate” da parte del sindaco di turno: in particolare, gruppi nomadi, musulmani o senzatetto.
Dell’ordinanza del sindaco di Como si è discusso molto in questi giorni, sottolineando spesso come essa sarebbe ingiusta perché si accanisce su individui particolarmente vulnerabili. Vorrei sottolineare qui un altro punto dal quale può essere utile approcciate una simile decisione: quello della natura dello spazio pubblico. Simili ordinanze, infatti, sollevano una domanda tanto semplice quando cruciale: di chi è lo spazio pubblico (ossia lo spazio di proprietà pubblica)? Quali sono i limiti che possiamo considerare accettabili in merito alla regolazione delle attività che si svolgono nello spazio pubblico e delle persone che lo utilizzano?
Il tema è meno triviale di quanto sembri; gli studiosi che si occupano di questioni urbane vi ci si arrovellano da decenni. La risposta che viene talvolta data alla domanda “di chi è lo spazio pubblico?” è: “di tutti!”. Ne discenderebbe, di conseguenza, l’inaccettabilità di qualsiasi regolazione restrittiva rispetto al suo utilizzo. Tale risposta, tuttavia, è insoddisfacente. In Italia, così come in altri paesi liberal-democratici, sono normalmente accettate restrizioni, anche piuttosto severe, rispetto all’utilizzo dello spazio di proprietà pubblica.
Per esempio, accettiamo che ci siano limiti rispetto ai comportamenti che si possono tenere in un parco pubblico o in un cimitero pubblico, o rispetto a chi può accedere a una scuola elementare. Tutti questi limiti riguardano spazi di proprietà pubblica, ma sono diversi a seconda del tipo di spazio pubblico in questione. Ciò ci suggerisce un primo punto fondamentale: non si può parlare in maniera generica di spazio pubblico; esistono diversi tipi di spazi pubblici e a ciascuno di essi sono associate specifiche limitazioni di accesso e di comportamento. Lo spazio pubblico, quindi, non sempre è indistintamente “di tutti”. Anzi, in molti casi è strettamente regolamentato e solo alcune categorie di persone possono accedervi.
Alcuni spazi pubblici sono però “più pubblici” di altri, ossia sono caratterizzati da minori limitazioni di accesso e comportamento. È questo il caso, per esempio, di strade, piazze e marciapiedi. Qui vigono molte meno limitazioni rispetto a quelle che vigono in uno spazio pubblico come una scuola elementare. Tuttavia, anche in questo caso esistono alcune limitazioni. Queste riguardano per lo più comportamenti che hanno rilevanti esternalità negative sullo spazio in questione, con la conseguenza di diminuire in maniera diretta e tangibile la possibilità di fruire di tale spazio. Si pensi, per esempio, al divieto di organizzare una barbecue in una piazza pubblica. Da questo punto di vista la presenza di mendicanti e senzatetto potrebbe essere problematica: in alcuni casi, infatti (per esempio quando si è di fronte a un fenomeno che riguarda centinaia di persone – si pensi al caso di San Francisco), ciò potrebbe avere effetti negativi rilevanti, diretti e tangibili sulla fruizione dello spazio pubblico in questione, limitandone significativamente la possibilità di utilizzo da parte di altri soggetti.
Rispetto al caso di Como, una prima domanda da porsi è dunque se si è di fronte a una situazione di questo tipo. Se invece si tratta di un fenomeno quantitativamente limitato e con un impatto poco rilevante, la giustificazione per limitare tale pratica viene meno.
La valutazione dell’impatto di una certa pratica sullo spazio pubblico non è però sufficiente a giustificare la sua limitazione, soprattutto quando questa pratica riguarda i senzatetto. Come osserva Jeremy Waldron, un noto giurista della New York University:
“Un modo per descrivere la piaga dell’essere senzatetto è quello di dire che non esistono luoghi governati da regole private nei quali è permesso stare. [Il punto è che] tutte le azioni implicano una componente spaziale […]. Ne consegue necessariamente che una persona che non è libera di stare in alcun posto non è libera di fare alcunché; tale persona è completamente priva di libertà“.
In sostanza, per un senzatetto la proibizione di certi comportamenti nello spazio pubblico può rappresentare la proibizione di svolgere tout court certe funzioni vitali, nel caso in cui le autorità pubbliche non forniscano un’alternativa valida per lo svolgimento di tali funzioni. Si pensi al dormire per strada: se dormire negli spazi pubblici è vietato e non esistono alternative offerte dall’amministrazione comunale, tale divieto rende legalmente impossibile dormire per un senzatetto. Ciò che ne discende è una sorta di “criminalizzazione di status”: i senzatetto sono criminalizzati in sé, nel senso che la loro stessa esistenza in quando individui (che hanno necessità fisiologiche quali il dormire) è criminalizzata.
Da questo punto di vista, pur avendo posizioni diverse sul tema (per esempio in termini politici o etici), credo che tutti dovrebbero concordare su un punto: le autorità pubbliche dovrebbero avere la facoltà di regolare solo comportamenti che sono portatori di evidenti e tangibili esternalità negative nello spazio pubblico, che ne limitano in modo rilevante la fruizione (che poi queste regole sia politicamente o moralmente giuste o sbagliate è altra questione). Al contrario, non dovrebbero poter usare tali regole solo per colpire specifici gruppi “indesiderati”. Insomma, specifiche concezioni ideologiche e valoriali di cosa sia “bene” e “giusto” non dovrebbero divenire in sé il presupposto dell’esclusione di individui e comportamenti dallo spazio pubblico. Altrimenti, così facendo, si stravolge la natura stessa dello spazio pubblico.
(Pubblicato su Huffington Post Italia)