A quasi nove anni dalla loro realizzazione, qualche giorno fa Silvio Berlusconi è tornato a visitare uno dei noti “progetti C.A.S.E” (spesso enfaticamente definiti come “new towns”). I progetti C.A.S.E. sono costituiti da 4.500 appartamenti (per un totale di circa 9000 residenti), ubicati in palazzine multipiano appoggiate su massicce piastre antisismiche in cemento armato, localizzati in 19 nuovi quartieri realizzati subito dopo il sisma del 2009 in varie parti del territorio dell’Aquila.
Nonostante la propaganda trionfalista dell’allora Governo Berlusconi, i progetti C.A.S.E. furono da subito oggetto di aspre polemiche. Alle critiche per i costi di costruzione molto elevati e per la localizzazione problematica, si sono aggiunte le evidenze dei limiti qualitativi e strutturali di alcuni di questi complessi (con recenti casi eclatanti di deterioramento). Inoltre una gestione irrazionale ha condotto a un indebitamento dell’amministrazione comunale per oltre 12 milioni di euro, dovuto alla mancata riscossione di canoni e costi delle utenze.
Con il progredire della ricostruzione e il ritorno degli sfollati nelle proprie case, oltre alla gestione del difficile presente di questo patrimonio a preoccupare sempre di più dovrebbe essere quella del suo futuro. Il destino di questi complessi è infatti problematico. La soluzione implicita al momento della loro costruzione era la demolizione, che tuttavia risulterebbe costosissima. E che, non a caso, risulta di fatto esclusa sia da diverse dichiarazioni del Sindaco sia da decisioni recenti dell’amministrazione (per esempio, quella di mettere 400 alloggi a bando come edilizia a canone sociale). Simili posizioni sembrano però ignorare il problema del declino strutturale, dei costi di manutenzione e della desiderabilità del risiedere in questi complessi.
Ulteriore lascito problematico del post-emergenza è quello delle cosiddette “casette”. Nel 2009 la giunta comunale di centro-sinistra approvò una delibera che permetteva a chiunque possedesse un terreno, qualsiasi ne fossero destinazione d’uso e vincoli paesaggistici, di costruirvi un’abitazione monofamiliare di superficie limitata, da rimuovere entro 36 mesi. Più di 1000 famiglie optarono per questa strada, per diversi motivi (per esempio, per una maggiore percezione di sicurezza anti-sismica). Piccole case monofamiliari, di frequente (ma non sempre) in legno e all’avanguardia in termini energetici e costruttivi, si sono diffuse su tutto il territorio. In queste abitazioni i residenti hanno spesso investito somme consistenti di denaro, nell’aspettativa – suffragata in qualche modo dalla delibera comunale stessa – che si potessero in futuro regolarizzare. Anche in questo caso le scelte politiche hanno permesso di capitalizzare nell’immediato il consenso del provvedimento, senza alcuna considerazione delle conseguenze a lungo termine. A 10 anni dal sisma praticamente nessuna di queste case è stata smontata, mentre sono molti gli abitanti che chiedono da tempo al Comune una qualche certezza sul loro futuro, senza ottenere risposta alcuna. Ad aggravare il problema, a queste abitazioni oggi tecnicamente illegali (sebbene a suo tempo costruite regolarmente), se ne aggiunge un numero imprecisato che invece è stato costruito del tutto abusivamente: una sorta di “abusivismo dell’emergenza”, di cui non si hanno stime precise e di cui l’amministrazione non pare interessarsi.
Infine, un’ultima eredità: quella dei cosiddetti “alloggi equivalenti”, ossia alloggi che sono stati acquisiti dal Comune perché chi li occupava prima del sisma ha preferito ricevere dallo Stato un contributo finanziario per acquistare altrove una nuova casa, invece che quello relativo alla ricostruzione dell’immobile danneggiato. Si tratta di più di 500 alloggi, solo alcuni dei quali già ristrutturati, che dovrebbero essere coinvolti in un progetto di residenza studentesca diffusa promossa dalle istituzioni universitarie della città. Questo progetto è nelle intenzioni virtuoso, visto che mira a riportare gli studenti nella città “compatta” e nel centro storico. Rimane tuttavia l’incognita dei possibili effetti negativi di una simile iniziativa su un mercato immobiliare già inondato di offerta.
L’insieme di questa pesante eredità racconta, da diversi punti di vista, una singola storia: quella del difficile equilibrio fra l’esigenza (e la retorica) della risposta rapida alle emergenze e gli effetti di lungo periodo delle decisioni assunte in nome della rapidità, anche alla luce del fatto che spesso ciò che viene programmato come temporaneo si rivela invece permanente. Tutto questo patrimonio in eccesso contribuisce oggi creare una preoccupante bolla dell’offerta immobiliare, abbassa ulteriormente la qualità urbana e quindi l’attrattività della città, costringe migliaia di persone a vivere in un limbo regolativo (è il caso delle “casette”) oppure rischia di trasformarsi in alloggi di terza classe per le popolazioni marginali (è il caso dei progetti C.A.S.E.). Di fronte a questa eredità né le amministrazioni di centro-sinistra che hanno governato la fase dell’emergenza e della ricostruzione né quelle di centro-destra che governeranno città e regione nei prossimi anni sono parse o paiono intenzionate a intervenire. I costi politici evitati nell’immediato grazie all’assenza di interventi strutturali su questo delicato fronte si sono dimostrati, per la classe politica locale, ben più importanti dei costi collettivi cui farà inevitabilmente fronte l’intera città negli anni a venire.