Il giudizio pubblico sulla ricostruzione è, con poche eccezioni, piuttosto critico. Indipendentemente da cosa si pensi di tale valutazione negativa credo sia utile spostare il dibattito da un giudizio assoluto a uno relativo, provando così a rispondere a questa domanda: era possibile fare meglio?
Al netto di alcune malversazioni, sprechi e inefficienze – che ci sono state, ma non hanno influenzato in maniera decisiva la traiettoria della ricostruzione – credo di no. Ecco perché.
Il dato di fatto da cui partire è la constatazione che lo sforzo pubblico relativo alla ricostruzione è stato immane. Non solo dal punto di vista dell’investimento finanziario (in complesso il post-sisma dovrebbe mobilitare circa 25 miliardi di euro pubblici), ma anche di quello cognitivo ed emotivo: l’Aquila (a differenza di altre zone colpite da terremoti) è costantemente al centro dell’attenzione politica; numerosi professionisti, tecnici e studiosi hanno messo le proprie competenze a disposizione della ricostruzione. Come è stato dunque possibile fallire (ammesso che di fallimento si possa parlare)?
La verità è che i problemi della ricostruzione all’Aquila sembrano essere “semplicemente” lo specchio dei problemi generali dell’Italia. Tra questi è facile menzionare quello della lentezza cronica delle opere pubbliche – conseguente anche alla complessità burocratica e normativa che caratterizza il nostro paese: non è un caso che a essere in ritardo sia la ricostruzione di edifici e strutture pubbliche, mentre la ricostruzione degli edifici privati è proceduta piuttosto speditamente.
Il problema che però rischia di porre un’ipoteca più gravosa sul futuro dell’Aquila è un altro: l’incapacità della classe politica – tanto locale quanto nazionale, tanto di centro-destra quanto di centro-sinistra – di compiere scelte lungimiranti, di prospettiva, che vadano oltre l’orizzonte temporale della successiva tornata elettorale e si pongano obiettivi diversi dalla costruzione immediata del consenso. Due decisioni che riguardano la ricostruzione sono a tal proposito paradigmatiche.
La prima scelta è stata quella di realizzare il progetto C.A.S.E. Si tratta di 4.500 appartamenti, localizzati in 19 nuovi quartieri (spesso enfaticamente definiti “new towns”) realizzati pochi mesi dopo il sisma del 2009 in varie parti del territorio dell’Aquila. Lo scopo era quello di dare una “vera” casa a più di 10.000 persone sfollate a causa del sisma. Il progetto C.A.S.E. fu fortemente voluto da Silvio Berlusconi, come rappresentazione plastica dell’efficienza del governo che presiedeva. E, nonostante aspre critiche (per esempio per gli elevati costi di costruzione), fu un evidente successo in termini di immagine e consenso. Oggi però di questi complessi non si sa che fare. La soluzione implicita al momento della loro costruzione era la demolizione, che tuttavia risulterebbe costosissima. Non a caso tale soluzione è stata esclusa dalla politica locale – che però non propone alternative credibili, ignorando al contempo il problema del declino strutturale e degli elevatissimi costi di manutenzione di questi complessi.
La seconda scelta è quella relativa alle “casette” della delibera 58/2009. Poco più di un mese dopo il sisma, il governo locale guidato da Massimo Cialente approvò una delibera che permetteva a chiunque di costruire una “casa temporanea” su un terreno di sua proprietà, indipendentemente dalla destinazione d’uso di questo e dai vincoli paesaggistici e ambientali vigenti sull’area. Tanto quanto quella del progetto C.A.S.E., questa scelta aveva ragioni comprensibili e rispondeva a una chiara domanda locale: fornire una soluzione abitativa a chi, per svariate ragioni, non voleva o non poteva accedere ad altre opzioni (per esempio, gli alberghi sulla costa, perché voleva o doveva rimanere in loco).
La delibera è stata però concepita male, in modo opaco e ambiguo: diceva che le “case temporanee” dovevano essere rimosse dopo 36 mesi (davvero il Comune pensava che la ricostruzione sarebbe finita dopo 3 anni?) ma allo stesso tempo faceva intendere la possibilità della loro regolarizzazione. Il risultato è che tale delibera ha spinto migliaia di persone a costruire qui e là per il territorio aquilano, senza alcuna razionalità d’insieme, la propria abitazione, investendo decine di migliaia di euro in questa operazione (il costo di costruzione di una casa antisismica, per quanto “temporanea”, non è certo irrisorio).
A dieci anni dal sisma nessuna di queste migliaia di abitazioni è stata smontata o demolita, di modo che queste strutture, a oggi, sono tecnicamente abusive. Il Comune, però, continua a far finta che non esistano; di conseguenza gli abitanti di questi manufatti (qualcuno stima siano quasi 10.000) vivono in un limbo regolativo, senza che l’amministrazione comunale fornisca loro alcuna certezza (la maggior parte di loro vorrebbe che queste case fossero regolarizzate, ma il Comune, sia per ragioni legali, sia per ragioni politiche, non può e non vuole farlo). Anche in questo caso la classe dirigente ha fatto una scelta politicamente remunerativa sul breve periodo, ma senza considerazione alcuna delle sue conseguenze di medio-lungo periodo.
Quelle che ho menzionato sono scelte fatte da livelli diversi di governo (nazionale e locale) e da forze politiche di segno opposto (centro-destra e centro-sinistra). Ciò che le accomuna è il disastroso effetto a lungo termine, probabilmente ignorato placidamente in virtù del tornaconto immediato di tipo politico-elettorale. Può darsi che siano solo l’esito di una congiuntura sfavorevole, ossia degli errori delle persone che in quel momento guidavano il governo nazionale e quello locale. Temo però che vi sia un problema più profondo, strutturale: l’abitudine della politica italiana a curarsi solo del consenso immediato, senza alcun pensiero prospettico di lungo periodo. È per questo che, forse, in questo paese, la ricostruzione dell’Aquila non poteva andare meglio di così.