Due giorni fa Mike Pompeo, Segretario di Stato USA, ha dichiarato che gli Stati Uniti non considerano più le colonie israeliane in Cisgiordania illegittime, ossia contrarie al diritto internazionale. La stampa italiana ha dedicato ben poca attenzione a questa dichiarazione, considerandola probabilmente un fatto secondario. Non è così, purtroppo.
Le colonie israeliane sono l’elemento centrale della strategia israeliana in Cisgiordania – e, proprio per questo, sono uno dei principali ostacoli a una soluzione condivisa del conflitto israelo-palestinese – poichè estendono la presenza israeliana nei territori palestinesi ben oltre quella, greve ma in qualche modo temporanea e removibile, dell’esercito. Le colonie rendono infatti permanente e, al contempo, ordinaria, l’occupazione. O meglio, aggiungono all’occupazione (militare) una vera e propria colonizzazione (civile), materializzandola in case, strade, scuole, negozi, parchi, ospedali, università. Come ho spiegato altrove, oggi esistono circa 250 colonie in Cisgiordania, per lo più di carattere residenziale, che ospitano circa 400.000 israeliani (a cui si aggiungono circa 200.000 israeliani che vivono a Gerusalemme Est) – molti dei quali sono nazionalisti o religiosi iper-radicali, che scelgono di vivere nelle colonie per una questione ideologica, ossia per rivendicare la sovranità israeliana sui territori palestinesi.
L’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, così come la Corte di Giustizia Internazionale, hanno più volte sottolineato che la costruzione delle colonie – spesso direttamente promossa, avallata o legittimata dallo Stato di Israele – viola la Quarta Convenzione di Ginevra, che impedisce lo spostamento di popolazione civile nei territori occupati (atto giudicato “crimine di guerra” dalla Corte Penale Internazionale). Gli Stati Uniti sono stati per decenni allineati a tale interpretazione, fino, per l’appunto, all’altro giorno.
Questo cambiamento di linea non deve essere visto come un atto estemporaneo. Si colloca all’interno di una precisa strategia, cominciata con lo spostamento, l’anno scorso, dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Tale spostamento aveva rotto il primo dei due tabù internazionali rispetto al conflitto israelo-palestinese: il riconoscimento della sovranità israeliana su Gerusalemme “unificata”. L’altro giorno si è rotto il secondo di questi tabù: la legittimazione del processo di colonizzazione israeliana della Cisgiordania. E la sensazione è che questa seconda decisione possa avere conseguenze ancor più profonde e devastanti della prima. La prima decisione, infatti, per quanto politicamente grave, rappresenta in qualche modo il riconoscimento di un dato di fatto, di un risultato già ottenuto da parte dello Stato ebraico, ossia il controllo dell’intera Gerusalemme. La seconda decisione, invece, rischia di essere un incentivo a perseguire un obiettivo a oggi non ancora raggiunto, e ancor più contestato e controverso del controllo israeliano su Gerusalemme: l’annessione israeliana di una parte rilevante dei territori palestinesi. Non pare un caso che, durante la recente campagna elettorale, Benjamin Netanyahu abbia affermato che, in caso di riconferma nel ruolo di primo ministro, avrebbe annesso a Israele più del 20% della Cisgiordania, ossia la Valle del Giordano e le colonie israeliane. Questa affermazione era parsa inizialmente una boutade elettorale, la mossa sapiente di un politico esperto in un momento di difficoltà (anche per questioni giudiziarie). Alla luce della dichiarazione di Mike Pompeo, quanto declamato da Netanyahu appare in tutta evidenza essere un vero e proprio progetto che potrebbe concretizzarsi a breve. Dopo essere passati dall’occupazione (militare) alla colonizzazione (civile), ora il cerchio è pronto per chiudersi con l’annessione – il tutto anche grazie all’avallo esplicito degli Stati Uniti e l’inazione del resto della comunità internazionale.