La storia della guerra si è intrecciata quasi incessantemente a quella delle città, come raccontano bene, tra le tante, le vicende lontane due millenni di Cartagine durante la terza guerra punica e di Stalingrado durante la Seconda guerra mondiale. La conquista e la sottomissione delle città nemiche – e, in particolare, di quelle più importanti, come le capitali – sono infatti, da sempre, un modo per decapitare, simbolicamente ma anche funzionalmente, l’avversario.
Da questo punto di vista, per quanto nei secoli i modi e le forme della guerra siano mutati, i conflitti armati contemporanei non sono troppo diversi da quelli del passato. E così, anche oggi, la guerra in Ucraina ha finora riguardato soprattutto le città: Mariupol, Kharkiv e Dnipro, solo per citarne alcune. L’impressione è che l’attacco a queste città sia il preambolo dello “scontro finale” in procinto di iniziare: la battaglia di Kiev che, se verrà vinta dalla Russia, preluderà plausibilmente alla capitolazione dell’intera Ucraina.
Su questo sfondo, vi sono però due elementi che, soprattutto negli ultimi decenni, hanno modificato la relazione tra città e guerra. Il primo elemento riguarda l’urbanizzazione del conflitto armato. Sebbene le guerre del passato abbiano talvolta visto l’attacco alle città come apogeo della traiettoria bellica, raramente le guerre sono state urbane. Al contrario, le ostilità avvenivano quasi sempre in campo aperto. Erano battaglie di pianure e montagne, di foreste e campagne, aree per lo più a bassa densità abitativa in un mondo in cui la vita urbana era appannaggio di una minoranza della popolazione (si pensi, per esempio, alle guerre napoleoniche o alla Prima guerra mondiale).
Negli ultimi decenni, invece, il quadro è cambiato radicalmente, con la marea dell’urbanizzazione planetaria che ha mutato anche alcuni aspetti del fare la guerra. Oggi la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città (che sono destinate a un’incessante crescita, tanto demografica quanto economica). Non sorprende dunque che anche la guerra si combatta sempre più nelle città. Ciò riguarda soprattutto i “conflitti asimmetrici”, che oppongono eserciti nazionali a formazioni più piccole e spesso di natura diversa (tra cui gruppi terroristici e organizzazioni militari informali), in cui le città – e spesso le sue periferie tentacolari e aggrovigliate – sono quello che la Sierra Maestra e la giungla vietnamita sono state in altri periodi della storia recente: luoghi in cui alcuni gruppi militari potevano trovare rifugio e mettere in scacco eserciti ben più grandi e attrezzati.
Come numerosi analisti militari americani sottolineano da tempo, le operazioni militari su terreno urbano (le cosiddette MOUT, Militarized operations on urbanized terrain) giocheranno sempre più un ruolo chiave nei conflitti del futuro, ponendo problemi nuovi agli eserciti regolari – per esempio, per le difficoltà a orientarsi in queste aree o per la presenza diffusa di civili e strutture non militari. In un mondo contemporaneo fatto di città, dunque, non solo la conquista delle aree urbane – motore economico del pianeta e luoghi in cui il potere si condensa – diviene ancora più cruciale. Ma la guerra si combatte sempre più dentro le città, con conseguenze devastanti in termini di vittime civili e distruzione di edifici e infrastrutture non militari.
Il secondo elemento di specificità della relazione riguarda il fatto che la distruzione della città è divenuta talvolta un fine a sé stante del conflitto. La guerra, in altre parole, è divenuta urbicidio. Urbicidio esprime il fatto che il corpo urbano (case, infrastrutture, monumenti) diviene obiettivo in sé, funzionale a uno specifico scopo che non è direttamente militare. Cosa ciò voglia dire è stato plasticamente (e tragicamente) raccontato dall’attacco a Sarajevo durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina – in relazione al quale, non a caso, il termine urbicidio è stato elaborato. In quel caso la distruzione del corpo urbano non è stata il “danno collaterale” del fatto che la guerra implicava la conquista di quella città. Sarajevo è stata massacrata intenzionalmente nella sua struttura fisica, in quanto rappresentava il simbolo e la condizione di possibilità dell’eterogeneità e della convivenza tra gruppi diversi – esattamente l’opposto dell’omogeneità etnica a cui l’esercito serbo mirava.
Ma urbicidio è anche ciò che è avvenuto nella Striscia di Gaza negli ultimi anni – da quando, nel 2007, è cominciato il conflitto sincopato tra Hamas e Israele, che ha visto diversi momenti di recrudescenza guerreggiata (nel 2008-2009, nel 2012, nel 2014 e, più recentemente, nel maggio 2021) durante i quali le forze militari israeliane hanno devastato le aree urbane della Striscia. Tali devastazioni, come denunciato da diverse organizzazioni internazionali, non sono giustificabili secondo una logica prettamente militare. Perché allora, in un panorama bellico ipertecnologico, in cui i missili hanno margine di errore di pochi metri, si sono colpiti ospedali, centrali elettriche, librerie, sedi di agenzie di stampa? La risposta è che il corpo della città viene menomato intenzionalmente per motivi diversi dall’uccidere il nemico. A Gaza, una delle ragioni è quella di mantenere la popolazione palestinese in uno stato di precarietà e assoggettamento permanente – obiettivo funzionale alla discutibile idea israeliana per cui ciò contribuirebbe a indebolire il sostegno popolare ad Hamas.
È sullo sfondo di queste due caratterizzazioni che, nella contemporaneità, contraddistinguono la relazione fra città e guerra che ci si avvicina alla battaglia di Kiev. Il rischio concreto è che, anche nella capitale ucraina, la guerra assuma queste declinazioni. Ossia che Kiev diventi la giungla urbana nella quale la guerra si combatterà casa per casa, con esiti drammatici per la popolazione civile che non sarà riuscita a fuggire dalla capitale. E che, in questo quadro, la battaglia a Kiev diventi l’occasione di una nuova coniugazione del concetto di urbicidio che, materializzando lo spirito nazionalista che sta segnando il conflitto, dia luogo alla riduzione in macerie della città come modo per cancellarne l’identità ucraina.