Negli ultimi giorni diversi intellettuali si sono cimentati in riflessioni su come la pandemia potrebbe cambiare le nostre città. Tra questi, vi sono due noti architetti, Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas che, seppure con accenti diversi, hanno entrambi sostenuto la necessità di incoraggiare la dispersione residenziale, una sorta di “fuga dalla città”, come risposta alla pandemia. Per esempio, Stefano Boeri ha dichiarato: “Servirebbe quindi una campagna per facilitare la dispersione, e anche una ritrazione dall’urbano […]. L’Italia è piena di borghi abbandonati, da salvare. Abbiamo un’occasione unica per farlo. […] Io penso a un grande progetto nazionale: ci sono 5800 centri sotto i 5000 abitanti, e 2300 sono in stato di abbandono. Se le 14 aree metropolitane adottassero questi centri, con vantaggi fiscali e incentivi…”.
Un simile ragionamento, però, appare tuttavia claudicante – oltre ad avere, dopo decenni passati a stigmatizzare la vita suburbana e a decantare il trionfo delle città, il sapore ironico della spericolata capovolta intellettuale. Glissando sulla retorica trita dello smart working (che dovremmo smettere una volta per tutte di amplificare acriticamente) che accompagna queste riflessioni, vorrei soffermarmi sull’idea della necessità di abbandonare le città, in favore dei piccoli centri.
Sono almeno due le debolezze di tale idea. La prima è relativa al presupposto su cui si basa. Tale presupposto è quello che, al tempo della pandemia (considerata tra l’altro come destinata a durare svariati anni, forse decenni, quando tutto ciò è non è affatto certo), la densità residenziale è un problema in sè. Su tale presupposto mi permetto di sollevare alcuni elementi di dubbio – alimentati anche dalla constatazione che, per ora, le aree più colpite dal COVID-19 in Italia non sono solo e tanto aree a elevata densità residenziale, ma anche zone, al contrario, di profonda dispersione (per esempio, la provincia di Bergamo). E’ davvero la densità residenziale in sé a essere un problema o forse lo è la “densità fisico-relazionale” (intesa come densità di contatti fisici ravvicinati tra le persone) e i modi con cui questa viene vissuta? Se fosse la “densità fisico-relazionale” a essere problematica, non si vedrebbe alcun bisogno di favorire la dispersione residenziale (che non diminuirebbe necessariamente la densità fisico-relazionale). Sarebbe piuttosto opportuno ripensare i modi ordinari di vivere le città.
Ma anche se il presupposto del carattere pernicioso della densità residenziale fosse vero, la proposta della “ritrazione dall’urbano” rimane comunque poco convincente. Sembra infatti nutrita da un romanticismo tipico di chi i piccoli comuni li ha vissuti solo da turista – e, probabilmente, ne ha vissuta solo una minuscola frazione, costituita da meravigliosi centri storici all’interno di un paesaggio idilliaco. Ma, purtroppo, non tutti i piccoli comuni italiano sono luoghi di questo tipo, e non lo sono nemmeno i 2300 borghi in stato di abbandono. Molti di questi ultimi sono paesini quasi inaccessibili, non necessariamente affascinanti dal punto di vista architettonico e spesso privi dei servizi pubblici essenziali – in cui, sovente, la connessione internet è decisamente zoppicante, con buona pace dello smart working. Sono luoghi che si sono progressivamente depopolati non per un capriccio, ma perché qui la vita è dura: i servizi lontani, le opportunità lavorative quasi nulle, le relazioni sociali asfittiche. Per andare a scuola, all’ospedale o a prendere il treno devi farti un’ora di auto su strade tortuose – magari difficilmente percorribili durante la stagione invernale.
Chiariamoci, non sto mettendo in discussione la necessità di valorizzare e rilanciare i piccoli centri (più o meno abbandonati), ma il fatto che tale rilancio possa rappresentare un’alternativa praticabile alla vita urbana come l’abbiamo conosciuta fino a ora e debba trasformarsi in una delle principali politiche urbane nell’epoca della pandemia. Per di più, quest’idea salvifica della dispersione non tiene minimamente in conto i costi di quest’ultima: quante risolse pubbliche servirebbero per rendere “pienamente agibili” questi piccoli centri abbandonati? Quale sarebbe, per gli individui e la società, il costo ambientale ed economico della dispersione residenziale?
Prima di alimentare visioni manichee sulla bellezza della dispersione e della vita nei piccoli centri da contrapporsi all’incubo della vita urbana, mi sembra necessario rispondere a tali quesiti. E ancor più utile mi sembra concentrare le nostre energie intellettuali nel ripensare seriamente le forme ordinarie della vita urbana (e rurale), senza farsi abbagliare da vacillanti visioni estetizzanti.