Recensione del libro di Franco La Cecla, Contro l’urbanistica (Einaudi, 2015)
Leggi la recensione su Ibidem 6/2016
L’ultimo libro di Franco La Cecla, Contro l’urbanistica (Einaudi, 2015), si inserisce nel solco del precedente Contro l’architettura (Bollati Beringhieri, 2008) ed è, come quest’ultimo, un testo agile, dalla lettura molto piacevole. Composto con grande maestria retorica, è articolato in undici brevi capitoli. Tutti, a parte il primo e l’ultimo, sono composti da due parti. Una prima parte più propriamente analitica, in cui l’autore presenta le proprie idee, ogni volta discutendo un tema preciso e di grande rilevanza per l’urbanistica e, più in generale, per gli studi urbani. Tra questi, solo per citarne alcuni: povertà, insediamenti informali, partecipazione, questioni ambientali. Una seconda parte costituita da una sorta di delizioso cameo in cui La Cecla racconta brani di città delle quali ha esperienza diretta (Yojakarta, Fukuoka, Istanbul, Kuala Lumpur, Tashkent, Shangai, Milano, Ragusa, Minsk), dando così, attraverso le proprie esplorazioni etnografiche, fisicità e materialità alle analisi teoriche della prima parte del capitolo.
La vena del testo è, come è facile intuire fin dal titolo, ‘polemica’: l’autore si lancia, come ha fatto alcuni anni fa con l’architettura, in un’operazione di demolizione dell’urbanistica, non fondata sulla mera fascinazione estetica per la distruzione, ma nell’idea che “occorre che questa desueta e inutile disciplina venga radicalmente rasa al suolo per essere rimessa in sesto” (p. 13). Quella che La Cecla sembra proporre è una sorta di necessaria pars destruens propedeutica a una futura pars costruens.
Da questo punto di vista, il volume ha il grande pregio di gridare quello che molti studiosi sussurrano da tempo (tra l’altro, rivolgendosi a un pubblico presumibilmente ben più ambio di quello dei soli addetti ai lavori): ossia che l’urbanistica attraversa una fase di profonda crisi, che è al tempo stesso identitaria e epistemologica, per uscire dalla quale è necessario un percorso di riflessione collettiva profonda e radicale; e, ancora, che non solo l’urbanistica come campo del sapere è spesso poco incisiva e poco socialmente rilevante, ma che, per di più, in molti casi, rischia anche di produrre esiti negativi (ad esempio, promuovendo soluzioni poco efficaci – se non deleterie – a certi problemi urbani). Nel fare ciò, La Cecla stigmatizza alcuni problemi veri dell’urbanistica: ad esempio, il suo fondarsi su una conoscenza dei luoghi in cui opera che è, in alcuni casi, troppo parziale; o, ancora, il suo essere in balia di retoriche e slogan spesso fugaci (creative, resilient o smart city che sia). Dunque, se lo si approccia come un pamphlet polemico, il cui scopo è essenzialmente quello, anche attraverso toni volutamente sferzanti, di sollevare pubblicamente un problema e stimolare la discussione attorno ad esso, il libro lascia il lettore soddisfatto.
Tuttavia, se lo si affronta con gli occhi esperti di chi su questi temi, dall’interno, riflette da tempo, il libro appare meno convincente. Ed anzi, in alcuni passaggi, si scopre piuttosto debole.
Ciò non è legato alla visione caricaturale e troppo monolitica di alcune delle questioni affrontate – che si concede essere parte più dello stile che della sostanza del ragionamento di La Cecla. Ciò è legato ad alcuni problemi concettuali di fondo.
Il più rilevante è sicuramente quello relativo al ruolo della conoscenza. Una delle tesi centrali dell’autorea, che percorre l’intero volume, è che l’urbanistica soffra essenzialmente di un problema cognitivo: la conoscenza sulla quale si basa sarebbe superficiale, fondata sul dominio della dimensione quantitativa, incapace di comprendere il funzionamento quotidiano e minuto della città, che solo uno sguardo antropologico può restituire (è in questo senso che, secondo l’autore, la salvezza per l’urbanistica può provenire dall’antropologia). “Fin quando l’urbanistica somiglierà a una disciplina di policies di polizie per le città, fin quando essa avrà un carattere prescrittivo, allora sarà impossibile che assuma orecchie e occhi nuovi e che sia una disciplina anzitutto di ascolto delle città” (p. 14).
In sostanza, l’autore pare sostenere che, risolto il problema della conoscenza, si risolverebbero automaticamente i problemi dell’urbanistica – e, di conseguenza, probabilmente, anche i problemi di molte città.
Questa tesi presenta a mio avviso due problemi principali. Uno ‘interno’ (minore) e uno ‘esterno’ (maggiore).
Il problema ‘interno’ è il seguente, legato ai contenuti di tale sapere. E’ sicuramente vero che, in molti casi, vi è un deficit di conoscenza alla base di certi piani o certe politiche urbane; è però allo stesso tempo vero che, per quanto uno sguardo più attento ai fenomeni minuti e quotidiani (uno sguardo che potremmo chiamare antropologico) possa essere utile, l’antropologia da sola non può costituire la risposta al problema della conoscenza della città. La risposta non può venire da una disciplina. Le città sono diventate organismi talmente complessi che è velleitario credere che la sola (o, per lo meno, la principale) conoscenza necessaria sia quella di tipo antropologico. Ciò che mi pare servire per cercare di tenere il passo dell’evoluzione galoppante delle città sia invece esattamente l’opposto: uno sguardo multidisciplinare, che metta in dialogo diversi punti di vista, diverse prospettive, diverse scale di analisi. Urbanistica, antropologia, sociologia, geografia, economia, scienze politiche non possono che concorrere sinergicamente alla costruzione del sapere urbano, se vogliamo tentare di appropinquarci a una descrizione accettabilmente approssimata delle nostre città.
Il problema ‘esterno’, ben più rilevante del precedente, è il seguente, legato al ruolo di tale sapere e alla natura dell’urbanistica. La Cecla dichiara che è fondamentale che l’urbanistica smetta di avere un carattere prescrittivo. Tuttavia, l’urbanistica è per definizione un sapere prescrittivo, che indica cosa si può e cosa non si può fare nel territorio. Così come, per fare un esempio, il codice della strada indica cosa si può o non si può fare quando si guida un veicolo lungo una via. Possiamo discutere della sostanza delle prescrizioni urbanistiche (così come di quelle del codice della strada). Possiamo dibattere dell’eccesso o meno di prescrittività di queste. Ma ciò non toglie che l’urbanistica rimane il versante prescrittivo del sapere sulla città. Il versante descrittivo è appannaggio di altri campi del sapere: ad esempio, la sociologia, la geografia e l’antropologia. Questo versante descrittivo del sapere sulle città è una parte importante della pratica urbanistica, dell’elaborazione di piani e politiche urbane, ma non è certamente il suo centro. Da questo punto di vista, La Cecla, in molti passaggi del libro, sembra scagliarsi contro una cosa che lui chiama urbanistica, ma che, semplicemente, urbanistica non è, e che sarebbe più corretto chiamare ‘studi urbani’ o, più genericamente, ‘sapere sulla città’.
Questo ‘errore originale’ trascina con sé un secondo versante del problema. Concependo l’urbanistica come un campo del sapere solamente descrittivo, l’autore dimentica completamente la dimensione politica del governo del territorio. L’urbanistica di La Cleca galleggia nel vuoto istituzionale, in una bolla dalla quale sono espunti gli aspetti di potere e di governo. Al contrario, esattamente per la propria natura prescrittiva, l’urbanistica vive in imprescindibile relazione con il potere politico, rispetto al quale, pur con conflitti, tensioni, problemi, afflati di autonomia e imbrigliamenti, esperisce un rapporto di dipendenza. Piani e politiche urbane sono il frutto del nesso complesso tra una razionalità tecnica del sapere esperto (ma spesso debole) dell’urbanstica e una razionalità politica (spesso forte e quasi sempre prevalente) del decisore (democraticamente eletto). Misconoscendo questo aspetto, La Cecla ripropone paradossalmente quello che è uno degli errori tipici dell’urbanistica: quello di aver cercato di ignorare la relazione con la sfera del potere, nell’illusione tecnicista (e un po’ tecnocratica) di poter essere indipendente da questa. Il risultato è una visione distorta e parziale del funzionamento reale della governance urbana e, di conseguenza, dell’urbanistica.
Sotteso a tutto ciò vi è per di più un abbaglio cruciale. Anche ammesso di riuscire a giungere a una conoscenza descrittiva esaustiva e dettagliata della città (del suo funzionamento e dei suoi problemi), ciò non determinerebbe comunque, automaticamente, una ‘buona urbanistica’. Semplicemente, perché non esiste in astratto qualcosa come una ‘buona urbanistica’. Non esiste una risposta ‘buona’ o ‘giusta’ a un problema urbano. Esistono diverse risposte possibili, che l’urbanistica presenta (o dovrebbe presentare) all’attenzione della cittadinanza e dei decisori politici (che sono colori i quali, in ultima istanza, sono titolati a scegliere). Se l’urbanistica soffre di un deficit conoscitivo, ciò non riguarda tanto la natura dei problemi urbani, quando l’esito probabile delle diverse risposte possibili a tali problemi (ad esempio in termini di ripercussioni sociali, spaziali, economiche). Per usare le parole di Faludi (1973, p. 273), “la conoscenza empirica esclude certe decisioni, ma non può mai indicare quale decisione dovrebbe essere presa. La conoscenza indica i limiti di libertà all’interno dei quali i decisori politici possono fare le proprie scelte”. Detto in altro modo, “una politica pubblica può essere analizzata e valutata tecnicamente se con ciò intendiamo far emergere costi e benefi ci attesi, ma non può essere giudicata tecnicamente perché il giudizio degli stessi costi o benefi ci varia in funzione delle finalità politiche perseguite” (Mazza, 2009, p. 127).
Da questo punto di vista, il ragionamento di La Cecla pecca di ‘fallacia naturalistica’, ossia dell’errata convinzione che una certa (buona) conoscenza della realtà determini una certa (buona) risposta in termini regolativi – pecca che, paradossalmente, ha caratterizzato quella fase dell’urbanistica razional-sinottica del secondo dopoguerra di cui La Cecla sarebbe critico implacabile.
In sostanza, Contro l’urbanistica è un libro che raggiunge a pieno l’obiettivo di sollevare un problema, ma che, allo stesso tempo, non è in grado di proporne una solida analisi, né di suggerirne convincenti vie d’uscita.
Riferimenti bibliografici
Faludi A., 1983, «Critical Rationalism and Planning Methodology», Urban Studies, n. 20, pp. 265-278.
Mazza L., 2009, «Pianifi cazione strategica e prospettiva repubblicana», Territorio, n. 48, pp. 124-132.