Le ombre del cohousing

In Italia, quella del cohousing è quasi diventata una moda, che, ciclicamente, percorre le pagine della stampa nazionale. L’ultimo articolo entusiasta in cui sono incappato risale a fine gennaio, pubblicato sul Corriere della Sera.

Per quanto i progetti di cohousing portati a termine in Italia siano ancora un numero molto limitato (probabilmente poco più di una decina), di cohousing si sente spesso parlare sui media (oltre che in dibattiti di accademici e professionisti). Un numero crescente di persone pare essere attratta dell’idea della coabitazione. E c’è anche chi, sul versante degli sviluppatori immobiliari e dei progettisti, è riuscito a fare del cohousing la propria professione.

Quella della coabitazione è infatti, in termini generali, un’idea molto attrattiva, che si nutre di immagini di convivenza felice, riscoperta delle relazione interpersonali, solidarietà tra vicini. Tuttavia, vi sono anche alcune ombre, che solitamente non vengono messe in evidenza delle descrizioni giornalistiche (e nemmeno dalla ricerca accademica).

Come prima cosa, è utile fare un po’ di chiarezza su cosa si intende per cohousing. Con il termine cohousing si identifica una particolare forma d’insediamento residenziale, solitamente di dimensioni ridotte (qualche decina di abitanti), che si costituisce con l’obiettivo di creare una comunità coesa, dialogica e collaborativa. I residenti sono scelti sulla base della condivisione di valori e stili di vita comuni, creando una sorta di “vicinato elettivo” (come viene definito dagli stessi cohousers) o di comunità intenzionale. Ciò si rende necessario per garantire il funzionamento armonioso dell’insediamento, visto che i residenti partecipano a diversi momenti di vita comunitaria (per esempio pasti comuni, operazioni di cura e manutenzione dell’insediamento, attività sociali) e usufruiscono di alcuni spazi e servizi collettivi (si possono trovare, a seconda dei casi, lavanderia comune, sala da pranzo, spazi gioco per i bambini, sala relax, orto e officina bricolage, piscina o altre attrezzature sportive). Si noti però che, nel cohousing, la vita comune si svolge senza sacrificare la privacy individuale – non si tratta, in sostanza, di una “comune”: ogni famiglia, infatti, vive in un proprio appartamento, solitamente in proprietà, completamente autonomo dal punto di vista funzionale.

Al di là delle preferenze di ciascuno per un certo stile di vita piuttosto che per un altro – e nonostante  alcune interessantissime esperienze messe in campo negli ultimi anni anche in Italia (tra cui si segnala quella di Numero Zero a Torino) – è utile un approccio critico al fenomeno. Il cohousing può infatti essere interpretato come l’arrivo, anche in Italia, di forme potenzialmente non di nicchia di auto-organizzazione residenziale. Tali forme sono diffuse già da tempo in altri paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Si consideri che qui, secondo le stime più recenti, più di trenta milioni di persone vivono in una qualche forma di comunità residenziale privata. Quando si pensa alle comunità private statunitensi si immaginano spesso luoghi elitari, destinati alle classi più agiate, caratterizzati da sofisticati sistemi di fortificazione, sicurezza e controllo (le cosiddette gated communities). Per quanto simili forme di comunità fortificate esistano (si tratta tuttavia di una minoranza, circa un decimo del totale), in verità esiste un’articolata tipologia di comunità residenziali private. Alcune di queste hanno specifiche caratterizzazioni sociali o valoriali; per citarne solo alcune (oltre al cohousing): eco-villaggi (l’enfasi è posta sulla sostenibilità ambientale e il contatto con la natura), comunità religiose, retirement communities (comunità residenziali destinate a persone anziane). Altre comunità residenziali, invece, sono semplici quartieri o cittadine suburbane private, prive di una caratterizzazione specifica, in cui alcuni servizi (per esempio spazi per lo sport e la ricreazione) sono forniti su base privata (comunitaria) – non dallo Stato, bensì dai residenti per i residenti. In tutti i casi, si tratta forme di residenzialità collettiva alle quali i residenti aderiscono volontariamente, sulla base sia di certi valori o di un certo stile di vita condivisi, sia di certi servizi forniti dalla comunità. A risiedervi, negli Stati Uniti, è un’ampia varietà di popolazione, diversa in termini sia di reddito, sia di etnia.

Dal punto di vista dei residenti, le attrattive di simili comunità private (di qualsiasi tipo esse siano) sono evidenti: vi è, infatti, la possibilità di vivere in un ambiente di qualità, creato a misura delle proprie esigenze e preferenze, con persone con le quali si condividono per esempio passioni e valori. Allo stesso tempo, però, tali forme insediative sollevano interrogativi pubblici rilevanti: quali che siano i valori o le intenzioni dei residenti, queste comunità private residenziali favoriscono la segregazione sociale e l’omogeneità? Sono potenzialmente pericolose per la convivenza urbana? Vi è una differenza rilevante, per esempio in termini di “effetti urbani”, fra diversi tipi di comunità residenziali private – per esempio cohousing e gated communities? Devono considerarsi una reazione ai problemi di convivenza urbana di tipo regressivo (fondata sulla chiusura e la ricerca dell’affinità), oppure possono essere interpretate come un modo, per quanto imperfetto, di ricostruire legami comunitari a scala locale e rispondere ad alcuni dei problemi che caratterizzano molte città (per esempio sicurezza, degrado e scarsità di servizi pubblici)? Quale deve essere l’atteggiamento della autorità pubbliche nei loro confronti? A tali quesiti la ricerca in campo urbano non è ancora stata in grado di dare una risposta condivisa. Proprio a fronte di tali dubbi, l’entusiasmo che in Italia (così come in molti altri paesi europei) circonda il cohousing (soprattutto nel mondo accademico e giornalistico) appare avventata.

Allo stesso modo, un po’ troppo stucchevolmente apologetica suona la retorica che vi si sta costruendo intorno, che racconta di forme innovative di risposta alla crisi abitativa connessa alla crisi economico-finanziaria, di mixité sociale, di inclusione. Alla prova dei fatti della ricerca sul campo, infatti, questa si dimostra essere, nella maggior parte dei casi, per l’appunto solo retorica: molte comunità di cohousing sono abitate da popolazione piuttosto omogenea, tendenzialmente persone di reddito medio-alto con livelli elevati di scolarizzazione. Al contrario, il cohousing appare strutturalmente inadeguato a dare un’efficace (e diffusa) risposta ai bisogni abitativi della fasce di popolazione a reddito più basso (per esempio, perché è un modello insediativo che si fonda sulla proprietà dell’abitazione) o a promuovere forme significative di mixité e inclusione.

Naturalmente, ciò non implica automaticamente un giudizio negativo sul fenomeno in sé. Indica solo che bisogna evitare di caricare il cohousing di aspettative che non è in grado di soddisfare: si tratta di una forma di residenzialità innovativa, interessante sotto diversi aspetti, che serba in sé diverse potenzialità da esplorare, ma che non è sicuramente la panacea dei mali della città contemporanea e che, parimenti, presenta ancora lati oscuri non ancora completamente chiariti.

[Nella foto: Cohousing Chiaravalle]

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