Ciclicamente, in Italia, si torna a parlare di abusivismo edilizio, con una certa tendenza, però, a farlo in maniera spesso raffazzonata e approssimativa. La politica nostrana, naturalmente, è capofila di questo pressappochismo. Paiono perciò utili almeno (tre) brevi precisazioni, presentate a grana grossa per questioni di brevità.
1. Prima precisazione: in Italia non esiste abusivismo di necessità.
Si parla spesso, in modo piuttosto manicheo, di due tipi di abusivismo quasi contrapposti. Il primo è il cosiddetto “abusivismo di necessità”. Si costruirebbe illegalmente perché non vi sarebbe altro modo di assicurarsi un tetto sulla testa. Il corollario di questa etichetta è che si tratterebbe di un abusivismo scusabile e tollerabile – che, sembra intendersi, lo Stato potrebbe anche astenersi dal reprimere. Questo è, per esempio, quando non troppo velatamente sotteso a una proposta di legge in discussione prima dell’estate (il cosiddetto Decreto Falanga). Il secondo è il cosiddetto “abusivismo di speculazione”: in parole povere, si costruisce illegalmente per guadagnarci (o risparmiare). Secondo molti, sarebbe quest’ultimo la vera piaga del paese, quello contro il quale indirizzare l’azione repressiva dello Stato.
Ora, se questa distinzione è vera a livello teorico, bisogna accettare il fatto che, nella grande maggioranza dei casi reali, l’abusivismo in Italia non è di necessità. Non sono i poveri che costruiscono abusivamente. Si tratta, al contrario, spesso della classe media (magari medio-bassa, ma non certamente povera) che costruisce abusivamente, per esempio, una seconda casa al mare o in montagna – che non si potrebbe permettere economicamente di costruire in modo legale. O che costruisce abusivamente un piano aggiuntivo alla propria abitazione, con la prospettiva di dare alloggio ai figli quanto questi diventeranno grandi. Con non troppa approssimazione, si potrebbe dichiarare che l’unico vero abusivismo di necessità è quello di immigrati e Rom che costruiscono le proprie baracche ai margini delle nostre città, in scampoli di terra che nessuno vuole (questo è anche l’unico abusivismo che viene sistematicamente e celermente represso). Tutto il resto è “abusivismo di convenienza”, se non proprio di speculazione.
2. Seconda precisazione: non si abbattono le abitazioni abusive per mere convenienze e connivenze politiche.
La legislazione italiana contro l’abusivismo edilizio è, sulla carta, implacabile. Chi costruisce abusivamente (soprattutto in caso di abusi “gravi”, come la realizzazione di un piano aggiuntivo senza autorizzazione) non ha scampo. Nel migliore dei casi, sarà costretto ad abbattere a proprie spese la costruzione abusiva. Nel peggiore dei casi, si vedrà l’abitazione abusiva, insieme all’area su cui sorge, espropriata e successivamente demolita dalle autorità pubbliche; dovrà poi pagare le spese di demolizione e subire un processo penale. Tutti i Comuni devono sottostare alla legge nazionale, senza possibilità di trovare scappatoie: nel caso non provvedano rapidamente alla demolizione del bene abusivo, subentrano le Prefetture, che si occupano direttamente dell’abbattimento. Cos’è, dunque, che non quadra, visto che le demolizioni di immobili abusivi sono l’eccezione e non la norma? (Solo per dare un dato, si tenga presente che tra il 2000 e il 2011 solo il 10,6% delle 46.760 ordinanze di demolizione emesse si sono trasformate effettivamente in demolizioni). La triste verità è che, alla politica locale, non conviene perseguire l’abusivismo. Ciò è vero tanto dal punto di vista politico quanto da quello economico. Politicamente, demolire non conviene. Tollerare (e spesso favorire) l’abusivismo edilizio è stato, in molte aree del paese, un modo per costruire importanti bacini elettorali. Anche dove non è stato così, demolire è spesso un atto impopolare, che provoca reazioni negative in termini di consenso politico. Ma anche da un punto di vista meramente economico demolire non conviene. Abbattere una villetta abusiva può costare, tra spese processuali e costi vivi, fino a100-150.000 euro. Le autorità pubbliche dovrebbero recuperare tali costi dal proprietario del bene. Cosa avviene però, molto spesso? Tra lungaggini burocratiche e ricorsi, abbattere un bene abusivo richiede solitamente diversi anni. Nel frattempo il proprietario del bene, se è minimamente furbo, ha avuto modo di spostare i propri averi a persone di fiducia, in modo da risultare nullatenente all’atto della demolizione e non dover rimborsare i costi dell’abbattimento. In un periodo di risorse locali scarse, è piuttosto evidente che non vi è alcuna convenienza, da parte delle municipalità, a intraprendere processi di demolizione che non solo risultano spesso impopolari, ma nella maggior parte dei casi si rivelano anche lunghi e costosissimi. A meno che queste demolizioni non riguardino settori particolarmente vulnerabili e stigmatizzati della società (Rom e migranti), che solitamente non oppongono resistenza legale alla demolizione e il cui sgombero è politicamente redditizio.
3. Terza precisazione: il principale promotore dell’abusivismo edilizio è stato (ed è tuttora) lo Stato.
L’abusivismo edilizio ha certamente molte ragioni. Per esempio, ragioni culturali ed economiche. Per non parlare poi del ruolo centrale giocato della criminalità organizzata nell’abusivismo edilizio di molte area del paese – non solo alcune zone del Sud Italia, ma anche del nord (l’hinterland milanese in primis). Un potentissimo incentivo è però costituito anche da leggi, prassi e mancanze pubbliche. Il fatto che, come detto sopra, le demolizioni sono una rarità, nonostante una legge severissima, è un primo, eccezionale incentivo a trasgredire le leggi. In Italia sia ha la certezza dell’impunità.
Non solo, in molti casi vi è poi stata la possibilità di regolarizzare i beni abusivi. E’ quello che è avvenuto con i tre condoni edilizi. La ciclicità di tali condoni (1985, 1994, 2003, esattamente ogni 9 anni) ha rappresentato un fenomenale incentivo all’abusivismo: si è costruito illegalmente nell’attesa di un nuovo condono, certi che questo sarebbe prima o poi arrivato. Dulcis in fundo, in molti casi i condoni edilizi hanno garantito de facto la regolarizzazione dell’abuso a costo zero. La domanda di condono, se approvata, comporta infatti il pagamento di un’ammenda. Su 15,4 milioni di pratiche presentate nel corso dei tre condoni, a oggi sono però inevase ancora 5,4 milioni di domande. Di queste, 3,5 milioni sono relative al primo condono, dal quale sono passati più di 30 anni. E’ facile ipotizzare che queste domande non verranno mai esaminate, garantendo così una sorta di regolarizzazione a costo zero a questi abusi (nell’attesa dell’esame della domanda di condono, infatti, ogni provvedimento contro l’abuso edilizio è congelato).
Ecco, se tenessimo presente (almeno) questi tre punti, forse riusciremmo a costruire un dibattito pubblico e politico sul tema un po’ più sensato.