All’Aquila, a dieci anni dal terremoto, molte cose sono cambiate. Ciò che non sembra essere mutata è la narrazione della ricostruzione che molte testate giornalistiche continuano a proporre a ogni anniversario del terremoto.
Si potrebbero citare molti esempi, ma quello che più mi ha colpito è quello dell’ultimo numero de L’Espresso – a fronte della qualità delle inchieste che solitamente propone e della caratura del giornalista che firma il servizio in questione (Fabrizio Gatti). Il lungo reportage del settimanale dipinge un quadro a tinte fosche, fatto di ritardi, inefficienze, malversazioni, di “abitanti al confino” e scenari da “bombardamenti a tappeto”. L’apparato iconografico che accompagna il servizio è la rappresentazione plastica di questo taglio narrativo: foto cupe, da scenario post-bellico, che inquadrano per lo più macerie e comunicano disperazione.
Ma la situazione dell’Aquila a 10 anni dal sisma è davvero così? Ritardi, inefficienze e malversazioni ci sono naturalmente state. E in alcune frazioni dell’Aquila la ricostruzione sembra non essere mai partita. Nonostante ciò, il quadro dipinto da L’Espresso è terribilmente parziale; inoltre, fatto assurgere a generalizzazione, produce una profonda distorsione della realtà. Tutto ciò è sorprendete a fronte del fatto che dati e ricerche che raccontano il vero stato di avanzamento della ricostruzione non mancano.
Giusto per dare alcuni scampoli di questi dati (per un approfondimento più dettagliato, rimando qui): a fine 2016 circa l’80% degli edifici privati danneggiati al di fuori del centro storico principale era stato ricostruito (oggi siamo probabilmente ben sopra il 90%); a oggi le pratiche di ricostruzione istruite relativamente agli edifici di proprietà privata sono 25.000 sulle 30.000 presentate. Ad arrancare è soprattutto la ricostruzione di scuole, case popolari, attrezzature e infrastrutture collettive (solo la metà degli interventi su strutture e infrastrutture pubbliche è oggi stato portato a termine), insieme alla rivitalizzazione (e non tanto alla ricostruzione fisica) del centro storico. Ciò ci racconta del fatto che, seppur tra molti problemi, la ricostruzione ha fatto già un lungo pezzo di strada – mentre non si è sicuramente all’anno zero, come molti servizi giornalistici lasciano intendere. Sicuramente si sarebbe potuto fare di meglio e la strada da percorrere per terminare la ricostruzione è ancora lunga (secondo i dati ufficiali, 3 anni per completare la ricostruzione degli edifici privati, 6 per quella di edifici e strutture pubbliche).
Su questo sfondo, sostenere una narrazione pubblica genericamente catastrofista, che scivola velocemente verso la mistificazione, non è solo negativo in sé perché produce immagini sfuocate, ma ha anche l’effetto perverso che l’analisi giornalistica, tutta concentrata a dipingere simili rappresentazioni drammatizzate, perde l’occasione per affrontare le vere sfide (e sono tante) che l’Aquila post-terremoto si troverà ad affrontare nei prossimi anni – da quella della bolla immobiliare legata a una sovraproduzione edilizia esito delle politiche dell’emergenza (si pensi al caso eclatante dei 4500 alloggi del progetto C.A.S.E. [le cosiddette “New Towns” di Berlusconi], rispetto al futuro dei quali non si ha alcun piano credibile) e quella della crisi economica che rischia di travolgere la città quando l’effetto dopante dell’economia della ricostruzione finirà.